Giacomo Leopardi Poeta Italiano Biografia

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GIACOMO LEOPARDI



VITA



Giacomo Leopardi nacque il 29 giugno 1798 a Recanati delle Marche, legazione dello stato Pontificio, dal Conte Monaldo e dalla marchesa Adelaide Antici.
Nel "natìo borgo" il futuro poeta trascorse l'infanzia in compagnia dei fratelli Carlo, Luigi e della sorella Paolina. La sua educazione fu affidata ai precettori del luogo; l'infanzia tuttavia non fu serena in quanto l'ambiente di casa era bigotto, cerimonioso e senza cordialità; i rapporti fra i due coniugi, fra i genitori e i figli erano irti di sotterfugi (si volevano bene, a modo loro, ma escludendo ogni possibilità di confidenza, di espansione).
Il patrimonio della famiglia era stato condotto sull'orlo della rovina dalla prodigalità e dalle cattive speculazioni del padre, ed era subentrata perciò ad amministrarlo la madre con un regime di disciplina e di severa economia, che lasciava intatte solo certe apparenze di fasto esteriore.
In questo ambiente uggioso e retrivo, isolato dalle correnti più vive ed aperte del progresso intellettuale, crebbe Giacomo fanciullo con la sua precoce intelligenza e la sua indole estremamente sensibile e fantastica. A dieci anni, il Leopardi si sente solo e trova nello studio, nei libri della biblioteca paterna, ricca non soltanto di classici ma anche di opere del Settecento, il suo unico rifugio.
In questi "sette anni di studio matto e disperatissimo" il ragazzo solitario si tuffa giorno e notte in attività di letture e scritture innumerevoli ed enciclopediche, dalle quali esce con la costituzione fisica rovinata senza rimedio e con i primi segni della malattia che lo tormenterà per tutto il resto della vita, già visibili nella deformità stessa della persona.
Acquista una conoscenza raffinata del latino e del greco, affronta l'ebraico, il francese, l'inglese e lo spagnolo, conduce in porto lavori filologici di grande impegno: traduzioni, commentari, revisioni critiche di testi rari e scarsamente esplorati. A quattordici anni, aveva già compiuto gli studi sotto la guida di un precettore, il gesuita Sebastiano Sanchini, il quale fu allora licenziato "perché - scrisse il padre - non aveva più altro da insegnargli". Già a quindici anni scrisse "Storia dell'astronomia" (1813), ricca di notizie racimolate d'ogni parte; a diciassette anni un'altra opera dello stesso tipo, ma molto meglio organizzata e con impronta più personale, il "Saggio sopra gli errori popolari degli antichi" (1815).
Tutta la vasta e disordinata produzione dell'adolescenza oscilla tra un'erudizione tipicamente settecentesca e la cultura classicista. Nel campo letterario, domina incontrastata la linea della tradizione arcadica più esterna e retorica di provincia.
Tutta questa produzione della puerizia e della adolescenza reca del resto il segno di una fervorosa assimilazione e quasi di una emulazione dell'erudizione paterna.
Nel campo filologico, sono evidenti i segni di un'erudizione un po' oziosa, accademica, aneddotica, senza ampiezza di orizzonti, scarsa di sintesi; più vicina insomma ai modi dell'erudizione sei-settecentesca, che non a quelli della filologia romantica con il suo vasto respiro storico.
In politica, infine, l'opera "Agli italiani" del 1815 mostra l'adesione di Giacomo alle tesi reazionarie di Monaldo, nello sforzo di esaltare il dispotismo illuminato e di distogliere i compatrioti dalle nascenti aspirazioni verso l'unità e l'indipendenza con argomenti di sapore schiettamente materiale: meglio un'Italia divisa, ma pacifica e ricca, che un'Italia grande e unita, ma privata del suo quieto vivere; meglio appigliarsi ai "reali vantaggi" che non correr dietro alle utopie di una "gloria fantastica".
Nel 1816 si attua intanto quella che egli chiamerà la sua "conversione poetica", il passaggio "dal tutto al bello", che porterà al "pessimismo storico".
Sempre in questi anni, invia alla "Biblioteca italiana" una lettera di risposta a quella della Madame de Stael, in cui difende le posizioni dei classicisti: questa partecipazione alla polemica tra classicisti e romantici avviene tramite la composizione della "Lettera ai compilatori della Biblioteca italiana" e poi, nel 1818, con il "Discorso di un italiano intorno alla poesia romantica" in cui si schiera a favore dei classicisti, ma propone una poesia vicina alla "natura" con la quale si accosta ai romantici.
L'amicizia iniziata nel 1817 con Pietro Giordani e soprattutto la cresciuta consapevolezza della propria infelicità si matura in un travaglio e in una tetra macerazione di pensieri solitari. I1 documento più prezioso di questo trapasso ci è fornito dalle lettere scritte fra il '17 e il '19 appunto al Giordani, il primo uomo in cui Leopardi incontrasse un cuore e un orecchio disposti ad ascoltarlo con comprensione fraterna, una mente capace di intuire il genio ancora in boccio, un letterato piacentino che ebbe il merito di comprendere la grandezza dell'ingegno del giovane amico che definì "smisurata e spaventevole".
Nel 1819 troviamo la cosiddetta "conversione filosofica": il passaggio dal "bello al vero", dalle lettere alla filosofia, dalla poesia d'immaginazione alla poesia sentimentale.
Il 1819 segnò una nuova crisi nella vita e nella poetica di Leopardi: sul piano biografico c'è da registrare un infruttuoso tentativo di fuga dalla casa e dal paese e l'acuirsi della malattia agli occhi. Ma tra il '19 e il '22, svanita per il momento la possibilità di evasione, egli è dominato proprio dalla noia, un sentimento che il Leopardi poi definì "il più sublime dei sentimenti umani", "il maggior segno di grandezza e di nobiltà, che si vegga nella natura umana", in quanto consiste nel "considerare l'ampiezza inestimabile dello spazio, il numero e la mole meravigliosa dei mondi, e trovare che tutto è poco e piccino alla grandezza dell'animo proprio". E' la prima grande stagione della poesia leopardiana.
In questi anni nel Leopardi comincia a nascere e svilupparsi il nocciolo della sua concezione pessimistica, la sua filosofia. Intanto matura anche la novità del suo mondo sentimentale, l'orientamento originale della sua poetica.
La produzione di questi anni si orienta in due direzioni: da un lato troviamo la poesia più colloquiale ed intimistica dei "Piccoli Idilli" e dall'altro le "Canzoni" che sviluppano alcune temi civili e patriottici ("All'Italia", "Sopra il monumento di Dante", "Ad Angelo Mai"), altre tematiche esistenziali ("Ultimo canto di Saffo", "Bruto Minore").
L'opera "Ultimo canto di Saffo", che narra la vicenda di una poetessa greca di non bella presenza che si suicida gettandosi da un burrone, segna il passaggio dal pessimismo storico al "pessimismo psicologico".
Nel novembre del 1822 Monaldo gli consente di uscir da Recanati e di soggiornare alcuni mesi a Roma in casa dello zio. La vacanza non ha però l'effetto sperato: se si tralasciano alcune utili conoscenze, per il resto fu un completo fallimento ed il Leopardi tornava al paese più deluso e amareggiato che mai. Il Leopardi sentì progressivamente inaridirsi la vena poetica; anche le conclusioni cui giunse la sua meditazione parvero imporgli l'abbandono della forma poetica per la prosa: scrive quindi le "Operette morali"; in questi brevi componimenti in prosa, il poeta affronta i temi della natura e della morte, della felicità e del dolore, esponendo in dialoghi, spesso ironici, la sua concezione pessimistica della vita.
La tesi di fondo che emerge dalle Operette è che l'infelicità degli uomini non dipende dalla loro storia, ma è intimamente connaturata con la loro vita; che la Natura non si cura del dolore umano il quale cessa solo con la morte. Questo è comunemente chiamato "pessimismo cosmico".
Nel 1825 riparte da Recanati per trasferirsi a Milano dall'ottobre del '25 all'ottobre del '26 e dall'aprile al giugno del '27 soggiorna a Bologna; e poi fino all'autunno dell'anno successivo si sposta tra Firenze e Pisa. Pisa, con il suo clima, il suo piccolo mondo raccolto, il suo "misto di città grande e di città piccola, di cittadino e di villereccio, un misto così romantico che non ho mai veduto altrettanto", gli offre il soggiorno più gradito, il più dolce e riposante: in quest'ambiente e con questo stato d'animo il Leopardi riprende a scrivere versi "all'antica". Compone "Il risorgimento" (inaugurazione in ritmi arcadici della sua stagione poetica più felice) e un capolavoro "A Silvia": l'annuncio della poesia che rinasce dopo un lungo silenzio.
Verso la fine del 1828 le condizioni fisiche si aggravano; ogni nuovo impegno di lavoro risulta impossibile: Leopardi è costretto a ritornare a Recanati.
Vi rimane poco meno di un anno e mezzo "sedici mesi di notte orribile", il periodo più cupo e desolato della sua vita: eppure da quel fondo di disperazione sbocciano, come un fiore miracoloso, i "Grandi Idilli", le prove più alte e luminose della sua lirica.
Nell'aprile del 1830 accettò l'offerta degli amici fiorentini di recarsi a vivere nella città toscana: qui conobbe Fanny Targioni Tozzetti. Il suo amore questa volta non è solitario vagheggiamento, semplice infatuazione o evento ideale, ma piena realtà sentimentale con una sua tesa parabola di speranze e di delusioni: la passione, dominandolo, gli dà dapprima "gran diletto" e "gran delirio", poi, con i primi disinganni, un languore amoroso che è "desiderio di morir", infine, consumando "l'inganno estremo" che aveva creduto eterno, una sorta di quiete disperata che, spegnendo i palpiti di quest'estrema illusione, scopre per l'ultima volta "l'infinita vanità del tutto". Di fronte all'ennesima delusione, si ritirò a vivere con Antonio Ranieri.
E questo incontro, questa solidarietà di due giovani infelici e diseredati, era anch'essa, almeno in principio, un atto di coraggio, un bel gesto romantico, che il Ranieri doveva pur troppo profanare in seguito con un libro di memorie, altrettanto utile per apporto di notizie biografiche preziose, quanto inopportuno per il rilievo dato ai pettegolezzi più meschini.
Nel settembre del 1833 con l'amico Ranieri partì per Napoli: in questi ultimi anni napoletani il Leopardi non smise di scrivere; compose "Aspasia" e i "Paralipomeni della Batracomiomachia".
Poco dopo, il 5 ottobre, Giacomo può scrivere al padre: "La mia salute non è gran cosa. Pure la dolcezza del clima, la bellezza della città e l'indole degli abitanti mi riescono assai piacevoli".
Intanto a Napoli scoppia un'epidemia di colera e il Leopardi si trasferisce, con Ranieri, in una villa alle falde del Vesuvio, dove compone "La Ginestra", che è il suo testamento letterario. In quest'opera, troviamo un Leopardi nuovo che ha un suo messaggio da consegnare all'umanità, una sua verità sconsolata e virile da esporre e da difendere, proprio nel tempo in cui gli vengono meno le energie fisiche e la voglia stessa di vivere.
Intanto le sue sofferenze sono al limite. Scrive al padre il 27 maggio 1837: "I miei patimenti fisici giornalieri e incurabili sono arrivati con l'età ad un grado tale che non possono più crescere: spero che finalmente la piccola resistenza che oppone loro il mio moribondo corpo, mi condurranno all'eterno riposo che invoco caldamente ogni giorno, non per eroismo, ma per il rigore delle pene che provo".
Il 14 giugno 1837 è coldo da malore e muore rapidamente.
Dal 1939 le ossa riposano presso il Parco Virgiliano di Piedigrotta.

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LA CONVERSIONE POETICA (1816)


Tra il 1815 e il 1816 si attua quella che egli chiamerà la sua conversione poetica, il passaggio "dal tutto al bello" , la scoperta della poesia e il correlativo abbandono dell'arida filologia.
La scoperta della poesia e l'interesse intervenuto per la letteratura contemporanea spingono il diciottenne Giacomo a partecipare alla polemica, scoppiata appunto nel 1816, tra classicisti e romantici: compone perciò prima la "Lettera ai compilatori della Biblioteca italiana" e poi, nel 1818, il "Discorso di un italiano intorno alla poesia romantica" in cui si schiera a favore dei classicisti, ma propugna una poesia vicina alla "natura" ed alla "sensibilità" romantica.
La poesia degli antichi è ancora, in quegli anni, per Leopardi, un modello e un simbolo di perfezione; ma gli argomenti, di cui si vale a sostegno di questa posizione classicista, sono già schiettamente preromantici. La poesia coincide col mondo dei primitivi, ed è sempre, anche negli individui e nelle civiltà adulte, un ritorno alle origini, all'infanzia. Delle due correnti fondamentali del romanticismo (quella nordica e quella italiana), fin da allora egli accoglie la tendenza patetica, soggettiva, e respinge quella realistica, oggettiva.
Lo vediamo allora far propria la distinzione fra poesia di immaginazione e poesia di sentimento (di ragionamento), caratteristica la prima delle civiltà antiche, l'altra dell'era presente: distinzione che viene a corrispondere, nel suo sistema, a quella fra natura e ragione, poesia e filosofia.
Vera poesia è solo quella d'immaginazione; d'altra parte i tentativi fatti di una poesia d'immaginazione, non spontanea ma riflessa, non immediata ma di imitazione, approdano a risultati falsi e freddi, su cui Leopardi esprime allora quel giudizio negativo senza attenuanti. Ormai egli è convinto che "la poesia sentimentale è unicamente ed esclusivamente propria di questo secolo": una poesia non fondata sulle illusioni, ma sulla caduta delle stesse illusioni e sulla scoperta della verità. Quando il Leopardi giunse ad una prima sistemazione delle sue riflessioni, la sua concezione del mondo è quella che comunemente si definisce di "pessimismo storico".

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OPERE


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Piccoli Idilli



"Piccoli Idilli" sono poesie che il Leopardi scrisse per esprimere argomenti personali, di confessione lirica, completamente diversi da quelli che egli trattava nelle sue "Canzoni Civili". L'aggettivo "piccoli" è giustificato in prima istanza dalla necessità di distinguere questa prima produzione dalla seconda e quindi equivale a "giovanili" a differenza dei "maturi" ("Grandi Idilli").
Leopardi inaugura una maniera nuova di espressione poetica: abbandona i modelli antichi e la poesia d'immaginazione, per dedicarsi ormai senza più meditazioni al lirismo puro.

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Infinito



L'Infinito" è il primo di quei primi componimenti che il poeta pubblicò nel 1825 col nome di "Piccoli Idilli". L'idillio leopardiano si distingue profondamente da quello della tradizione; non è più il quadretto bucolico, un componimento piacevole di ispirazione pastorale, ma l'espressione poetica di un'avventura interiore, di un moto dello spirito nato dalla contemplazione nuova ed attonita di un aspetto della natura, o dalla rinnovata capacità di sentire e vedere. Si coglie così, nel senso più alto, che dallo stato d'animo idillico, da questa contemplazione "interiore" della natura, derivano alcune delle voci più nuove del poeta. Fin da fanciullo, lo ricorda lo "Zibaldone" nelle pagine scritte fra il 12 e il 13 Luglio del 1820, il poeta amava guardare il cielo "attraverso una finestra, una porta, una casa passatoia" (cioè attraverso l'andito o corridoio fra due case); nella poesia "L'Infinito" il poeta ha trovato le ragioni di questa preferenza: infatti, "da una veduta ristretta e confinata" nasce il desiderio dell'infinito, perché allora in luogo della vista lavora l'immaginazione ed il fantastico sottentra al reale. L'anima si immagina quello che non vede, ciò che quella siepe, quella torre gli nasconde e va errando in uno spazio immaginario e si figura cose che non potrebbe, se la sua vista si estendesse da per tutto, perché il reale escluderebbe l'immaginario. L'immergersi in una coscienza cosmica dell'infinito non è inteso dal Leopardi come abbandono ad una pura emozione, ad un immediato vagheggiamento musicale, nasce sempre da una consapevolezza vigile della realtà, da un'esigenza di superamento dei suoi dati immediati. Per questo si parla di una dimensione religiosa dell'Infinito nel Leopardi: quello che più tardi diventerà, nel "Canto notturno" o nella "Ginestra", meditazione ammirata dell'immensità della vita, del cosmo, qui è ancora ansia e vagheggiamento di assoluto e di eternità che nasce dalla coscienza della finitezza della propria realtà individuale.

ANALISI

"L'Infinito" si divide in due parti esattamente uguali, come dimostra il punto fermo a metà dell'ottavo verso. Nella prima metà della poesia è descritto l'infinito dello spazio, nella seconda metà, l'infinito del tempo: per definire l'infinito, ci dice il poeta, sono necessarie ambedue le coordinate, lo spazio e, appunto, il tempo.
Gli elementi esteriori si riducono ad un colle, ad una siepe che limita l'orizzonte, ad uno stormire di fronde. Sulla cima di un colle una siepe impedisce allo sguardo la vista di una grande parte dell'orizzonte. Ma quello che è l'ostacolo alla vista degli occhi diviene stimolo alla visione interiore, all'immaginare del poeta. Sorgono così dentro di lui gli "interminati spazi" del cielo, e i "sovrumani silenzi e la profondissima quiete" del vuoto; e quasi il cuore del poeta "non si spaura". Ma a proseguire l'idillio sopraggiunge un lieve rumore di vento, l'unico breve rumore sulla cime del colle. E da quella voce il poeta è ricondotto alle cose finite; e giunge al confronto di esse con l'eterno, al pensiero delle "morte stagioni", e della stagione presente così viva, così reale con i suoi rumori intorno al poeta. Dove va il tempo ? Come da una siepe è nato l'infinito dello spazio, così da un soffio è sorto quello del tempo; un infinito ancora più sovrumano e indeterminato che la mente invano cerca di sondare.
Si noti, immediatamente, quanto l'idea dell'infinito sia lontana da qualsiasi determinazione scientifica o filosofica. Per questo i legami col reale o hanno la vaghezza di sogno, oppure si affidano alla purezza della sensazione immediatamente tradotta in fantasia, e la fantasia cresce in sentimento.

Il processo si ripete due volte:

Sensazione visiva (sguardo impedito dalla siepe);
Fantasia (immaginazione di mondi sterminati e silenziosi);
Sentimento ("ove per poco il cor non si spaura");
Movimento che sembra di interiorizzazione ("io nel pensier mi fingo").

Sensazione auditiva (vento che stormisce fra le piante);
Fantasia (eternità, trascorrere del tempo);
Sentimento ("e il naufragar m'è dolce in questo mare");
Movimento di esteriorizzazione ("e il naufragar m'è dolce in questo mare").

"L'Infinito", tendendo al vago e all'indefinito, attua un'esplorazione della soggettività, ma anche della tensione concettuale.
Emergono in particolare:
• L'indicazione di uno spazio concreto (l'area limitata della siepe) e di uno specifico, personale (consuetudine).
• Il processo di astrazione, visione mentale dello spazio.
• Il passaggio dall'immagine aspaziale a quella temporale. Contrapposizione fra spazio concreto e tempo.
• Lo smarrimento genera piacere.

Il critico Lotman, pone la contrapposizione tra:

Spazio interno: spazio chiuso, rotondità della collina che lo delimita.
Spazio esterno: sovrumano, immobile, mondo dei pensieri, mondo della morte, l'eternità

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La sera del dì di festa



Composto nell'estate del 1820, quest'idillio potrebbe venire considerato l'esempio tipico di come la situazione sentimentale dei "Piccoli Idilli", tutta basata sull'aspirazione di sensazioni musicalmente vaghe ed indeterminate, si distenda sull'onda di ricordi di paesaggi e di intuizioni dell'anima e si raggeli invece ogni qual volta riaffiori un tema immediatamente personale e polemico. Così quest'idillio si racchiude soprattutto sulla descrizione del villaggio addormentato contemplato in un silenzio immobile in un' estasi sospesa; sull'eco musicale del canto che sale dalla strada, e sul ricordo della fanciullezza che questo canto suscita.
Il canto si apre con una straordinaria descrizione della notte illuminata dalla luna e si chiude in un malinconico indugio sulla propria infanzia ormai irrimediabilmente trascorsa.
Il primo motivo poetico dell'idillio è il vagheggiamento di una quieta notte lunare. Quello che maggiormente ci commuove è lo stato d'animo contemplativo raggiunto dal Leopardi, quell'improvviso contemplare e tacere di ogni altro senso, quell'aprirsi nuovo degli occhi dinanzi alle immagini della natura.
Il secondo motivo poetico è quello del canto notturno che si disperde nella campagna e muore a poco a poco allontanandosi; un idillio anche questo che cerca il senso della fugacità del trapassare e spegnersi di ogni vaghezza; che accompagna un altro degli aspetti della poesia leopardiana cioè la capacità di rinvenire nelle contemplazioni del momento, stupori, incanti e malinconie degli anni passati.
Questa poesia raccoglie concetti ed immagini che negli stessi anni compaiono anche negli appunti e nelle lettere. Essa è caratterizzata dalla compresenza, tipica di tutte le poesie leopardiane, ma qui più vistosa, di momenti descrittivi e di discorso polemico protestatario; la protesta è contro la natura che al poeta ha negato anche i mediocri divertimenti e le speranze che illudono gli altri uomini e si svolge in termini personali patetici.

ANALISI

Motivo dominante e unificante è la percezione del tempo, raffigurata attraverso tre situazioni di confronto che ne evidenziano il trascorrere e il movimento.

La sera di Recanati rispetto alla giornata festiva.
Il presente storico rispetto all'antichità dei popoli scomparsi.
Il momento personale che il poeta sta vivendo rispetto all'infanzia.
In pratica la poesia è riassumibile in due parti, sulla base di due relazioni:

Il poeta e la donna (vv. 1-20)
Il poeta ed il tempo (vv. 21-46)
Nella parte de "Il poeta e il tempo", si costituisce un insieme di analogie che si rendono equivalenti.

Queste analogie ricalcano il tema generale e l'infelicità del poeta che, senza amore, senza speranza, sente il tempo passare inesorabile. Queste emozioni sono comunicate dalla percezione del tempo che passa, fissata in tre storie:

Villaggio: la piccola storia del villaggio.
Mondo: la grande storia del mondo.
Io: la vicenda dell'individuo.

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Il passero solitario



Fu composto negli anni più tardi, al tempo dei "Grandi Idilli" , ma dal Leopardi fu posto alla fine delle canzoni filosofiche, quasi a segnare il distacco dalle liriche precedenti, ed introdurre nei "Canti" una delle voci più nuove del poeta.
Anche se nell'edizione dei "Canti" del 1835 il "Passero solitario" è stato dal Leopardi stesso collocato prima de "L'Infinito" e come prologo a tutti gli Idilli, è ormai quasi comunemente accettata come data della sua composizione quella della primavera del 1829, quando forse il poeta riprese e sviluppò un'idea che già appare in un suo appunto del 1819-20.
Questa celebre opera quindi, posta all'inizio dei "Canti", sembra presentarci il suo primo autentico autoritratto.
Il poeta, appunto come il passero solitario, vive pensoso, solitario, in disparte, la giovinezza; ma, mentre il passero non soffre della sua solitudine e non avrà rimpianti al momento della morte, il poeta rimpiangerà di aver sciupato la propria giovinezza e, quasi, di non aver vissuto.
Dentro la struttura, il tema profondo che ricorre nel confronto con il passero e nella differenza con la "gioventù del loco", è la solitudine ("io solitario") incolmabile e voluta dal poeta ("non curo, io non so come").
La solitudine è il risultato di contraddizioni profonde che il poeta vive con dolore posto com'è fra il desiderare ed il "non curare", tra il sapere quali sono i beni della vita ("sollazzo", "riso", "amore", etc..) e il non cercarli, tra il trascurare la giovinezza e il rifiutare la vecchiaia.
La materia dei versi è dolorosa, conforme all'ispirazione costante del poeta (si osservi la prima strofa della lirica).
E' da aggiungere che il tema della solitudine fu uno dei motivi ricorrenti della poesia leopardiana.
Deriva da questo tema una suggestione che fu di continuo vagheggiata e respinta dal poeta, nei modi dialettici che sono propri di questo canto: cioè unita alla produzione di un tema opposto, della possibilità tra gli uomini di realizzare un incontro positivo; tema che perverrà alla sua espressione più elevata nei versi della "Ginestra".

ANALISI

La struttura della poesia è basata su confronti per similitudini e per differenze, per analogie ed antitesi.
Il canto è diviso in tre strofe; la prima e la seconda in cui è posto il confronto fra il passero solitario ed il poeta, la terza che ne sottolinea una diversità.

In particolare:

1^strofa: (vv.1 - 15) Descrive il comportamento del passero nel contesto e in rapporto agli altri animali, allo spazio della campagna, nel tempo della primavera che è la festa dell'anno. Non v'è una sorta di mestizia in quel passero, che pure dovrebbe essere il simbolo di un'esistenza dolente. Esso è divinamente solo e signore. Non ha bisogno di spassi, non di compagni. Canta. E quel canto si diffonde ovunque. Esso è il re del cielo; riempie e domina dall'alto tutta la valle.

Nella seconda e terza strofa la lirica discende invece ad un tono più raccolto, più meditativo.

2^strofa: (vv.16 - 44)Descrive il comportamento del poeta nel contesto e in rapporto agli altri giovani, allo spazio del paese, nel tempo della giovinezza che è la festa della vita. Le due strofe sono dunque costruite simmetricamente rispetto al contenuto e si rapportano l'una all'altra sulla base di un confronto per uguaglianza ("Oimè, quanto somiglia al tuo costume il mio!)", e per differenza, in rapporto al genere di cui fanno parte (l'umanità, il mondo animale).

3^strofa: (vv.45 - 49)La conclusione finale dei due modi di esistere, del passero e del poeta, sono ancora messi a confronto, ma per disuguaglianza: tu "non ti dorrai", "Ahi, pentirommi"; ovvero: tu vivi secondo la tua natura, io vivo contrariamente alla mia natura.

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Grandi Idilli



I "Grandi Idilli" muovono dalla stessa materia e concezione poetica dei "Piccoli Idilli", cioè dalla lirica di contemplazione e di riflessione nata da un'occasione di paesaggio, da un suggerimento della memoria, da un invito del sentimento. Ma il tema si allarga in un discorso più ampio ed organico, in una visione più vasta ed universale. Tutta la materia autobiografica rifluisce nello spirito del Leopardi che la rivive con trasporto e abbandono, con la coscienza della fine amara di quel tempo felice.
Questi canti nascono dal recupero degli affetti, non già dalle illusioni: il dolore degli uomini è causato dalla Natura e non potrà mai mutare, quindi risulta inutile illudersi in un mutamento della propria condizione. Il poeta denuncia questa situazione e prova pietà per tutti gli esseri viventi destinati a soffrire per natura, utilizzando però una forma infinitamente dolce che sminuisce la durezza dei contenuti, quasi avesse voluto consolarsi della situazione con un bel linguaggio. Muta anche il suo modo di porsi di fronte alla società e al mondo; egli si dimostra più aperto, combattivo, convinto delle proprie idee e pronto a difenderle ed a comunicarle agli altri, affinché tutti possano conoscere la verità.

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A Silvia



Nel 1828 il poeta trascorse a Pisa un periodo di particolare serenità fisica e spirituale: nella primavera egli riprese a comporre versi, nei quali il ricordo della fanciullezza felice lascia lentamente il posto alla consapevolezza che la felicità è purtroppo una delusione. Composto in due giorni, il 19-20 aprile 1828, questo canto è uno dei "Grandi Idilli".
Il canto è dedicato a Silvia, comunemente identificata con Teresa Fattorini, la figlia del cocchiere di casa Leopardi, morta di tubercolosi nel 1818; la fanciulla reale è però, nei versi, trasfigurata in figura reale femminile.
Silvia muore prima di giungere al fiore dei suoi anni, così come cade e muore la Speranza prima che si faccia piena la giovinezza del poeta. Silvia è perciò il simbolo della Speranza, e del suo cadere, disparire, dinanzi alla forza impietosa del Vero.
Nella poesia viene rievocato il ricordo di un momento dell'adolescenza, segnato dalla presenza festosa della fanciulla che nel canto e nella stessa vivacità del lavoro ("All'opre femminili") sembrava esprimere quell'attesa di una gioia che di lì a poco si sarebbe rivelata vana. Questo fatto richiama alla mente del poeta il suo stesso contrasto tra sogni immensi di una situazione umana immersa in un paesaggio primaverile e la contemplazione della condizione propria e di tutta l'umanità. Ma la coscienza della fine delle illusioni all'apparire dell'arido vero non dà più luogo, come in certi canti precedenti, a tensione polemica né forzatura di stile: invece possiamo rintracciare la tipica situazione idillica, come piaceva definirla il De Sanctis: il canto del cuore che sembra smentire i dati della ragione, la contemplazione delle illusioni giovanili che, mentre sono affermate vane ed ingannevoli, sono però vagheggiate nella dolcezza del ricordo che suscitano e fatte rivivere nel cuore.
La constatazione finale è che il vero distrugge ogni illusione e ci lascia di fronte alla morte e alla tomba.

ANALISI

Domina nella poesia una contraddizione spaventevole non solo dichiarata in termini di discorso di protesta ("O natura, o natura, / Perché non rendi poi / Quel che prometti allor? perché di tanto /
Inganni i figli tuoi?"), ma espressa anche attraverso una metafora quella del fiore che rispecchia la giovinezza. Questa metafora sottolinea l'accostamento fra due ordini di esistenza:

Il corso della vita umana
Il corso del grande ciclo vegetativo
ma pone anche in luce uno sfasamento tragico ed inspiegabile, poiché alla regolarità con cui succedono le fasi naturali, si contrappone la vicenda interrotta dell'individuo il cui destino è di non realizzarsi neppure biologicamente (è escluso dall'amore). La contraddizione è dunque molteplice: tra le speranze e l'apparire del vero, tra la natura dell'uomo ed i processi naturali di cui egli è parte, tra l'individuo e la specie, tra la sfera affettiva e biologica.
Se osserviamo la poesia nell'insieme, ci accorgiamo che è divisibile in due nuclei, che corrispondono a due metà esatte, ciascuna con un proprio tema, un proprio tono espressivo, una propria disposizione di animo, una propria stagione.
Nella prima metà viene stabilita una correlazione di destino tra Silvia e il poeta nell'attesa piena di speranze che tutti e due hanno dell'avvenire ("assai contenta / Di quel vago avvenir che in mente avevi").
Il tema è l'attesa dell'avvenire sperato.

Nella seconda metà, dopo la dolorosa constatazione della speranza caduta e la sconfortata domanda alla natura sul perché non ci dà ciò che promette, il poeta stabilisce una correlazione tra il destino di Silvia e la speranza ("Perivi, o tenerella. E non vedevi / Il fior degli anni tuoi", "Anche peria tra poco / La speranza mia dolce").

Il tema è la caduta della speranza e, con essa, della giovinezza.

In sintesi, la poesia è riassumibile secondo il seguente schema:

Età della speranza per Silvia
Età della speranza per il poeta
Fase di morte di Silvia e delle speranze del poeta.

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La quiete dopo la tempesta



Nello spazio di pochi giorni, nel settembre 1829, il Leopardi compose i due "idilli campestri", la "Quiete dopo la tempesta" e il "Sabato del villaggio", gemelli per la struttura e l'ideologia che li ispira: il carattere puramente negativo del piacere che la realtà perennemente delude riducendolo ad una "pausa tra due dolori" o ad una "attesa che fatalmente andrà delusa".
La base concettuale di quest'opera è data dalla teoria del piacere: il piacere ha un'essenza soltanto negativa perché consiste o nel sollievo al cessare del dolore o nell'aspettativa di qualcosa dal futuro. La 'quiete' rappresenta il primo caso, il "Sabato del villaggio" il secondo.
Il canto fu composto in quattro giorni, dal 17 al 20 settembre 1829. Il Leopardi vi esprime il fondamentale concetto che l'uomo è condannato al dolore e che la felicità, o meglio il "piacere", è soltanto il sentimento che si prova quando, per una causa qualsiasi, il dolore spontaneamente cessa.
"Piacer figlio d'affanno": è il motto che si legge a metà della composizione e che costituisce il suo motivo ispiratore; come un'epigrafe lapidaria, il verso divide la poesia in due parti uguali, contrapponendo a un primo momento poetico "descrittivo e gioioso", dove il villaggio riprende a vivere ed "ogni cor si rallegra", un secondo momento meditativo e dolente dove il poeta espone le sue convinzioni filosofiche. Tra i due momenti c'è un salto di stile e di tono: serve per trasformare il piccolo esempio del temporale di campagna nella metafora generale della condizione umana, cioè nella descrizione dell'infelicità costante ed ineliminabile dove il piacere rappresenta un momento episodico.
La parte descrittiva cui segue una seconda parte riflessiva, ha dato luogo a due diversi tipi di interpretazione critica: quella che isola la prima parte, considerandola perfetta in sè, una sorta di "quadretto fiammingo" e considera la conclusione come una coda prosastica; e l'opinione invece di chi, valutando la necessità di una considerazione unitaria degli elementi di pensiero e di quelli di sensibilità, propone una lettura in cui già il quadro iniziale sia visto come pervaso intimamente dal senso della fragilità delle nostre emozioni.
Ovviamente in ogni Canto del Leopardi è presente anche il momento riflessivo, così anche nella "Quiete" segue all'idillio la parte concettuale, la riflessione pessimistica. Quel piacere è solo "figlio d'affanno", esso nasce dalla fine di un timore, dalla cessazione della tempesta. Quel poco di piacere di cui fruiscono gli uomini deriva dalla fine di un dolore; la morte perciò, che porrà fine ad ogni male, è per essi il bene più grande.
La poesia è la documentazione più ragionata del pessimismo leopardiano a proposito del piacere.

Critica secondo il Lonardi:

Si riconosce nella poesia la presenza di varie fonti greche: presenza sorprendente in un testo che sembrerebbe nascere semplicemente dall'osservazione di una realtà familiare. Sono possibili riscontri con Omero (immagine del cielo che si rompe). Leopardi rappresentò la quotidianità di Recanati avendo in mente quei poeti che egli giudicava ancora primitivi e naturali. Non è illegittimo supporre che nel mondo artigiano-contadino egli abbia in una certa misura trasferito il modello antico: che abbia visto l'erbaiolo, il carrettiere etc. non già come personaggi idillici ma come figure esemplari di una umanità arcaica e semplice. Solo che quando compone questi canti non può più credere che la condizione di ignoranza, la non problematicità sia una condizione di felicità: questa gli appare fragile e provvisoria, confinata nel breve momento che segue alla tempesta e ridotta per di più al solo e mediocre ritorno alle abitudini. Leopardi finisce quindi per concedere anche agli "ignoranti" il triste privilegio dell'infelicità, ma non si assegna, né assegna ad altri, un compito verso loro.

ANALISI

La poesia si articola in:

Prima strofa: (1 - 24) il poeta descrive ciò che accade appena passata la tempesta, agli animali, nella natura, tra gli uomini; la vita del borgo che torna al lavoro consueto; il senso di liberazione e di gioia nel borgo, dopo lo spavento del temporale.
La seconda strofa inizia con la ripresa del verso chiave della prima strofa rovesciato: "Si rallegra ogni core". La strofa è strutturata su due osservazioni che, primo, constatano il piacere nell'uomo dopo l'affanno, secondo, spiegano la natura e l'origine del piacere. Questa strofa è costruita su una successione di interrogative che segna il passaggio dall'esempio specifico (temporale) al discorso generale dove la tempesta diventa metafora dei pericoli ben più vasti e straordinari che minacciano gli uomini; la strofa ha, come chiave interpretativa, il verso "Piacer figlio d'affanno".
La terza strofa fa perno su due momenti di ironia: primo, sulla natura che, per amore del genere umano, sparge pene e, secondo, sulla specie umana, così cara agli eterni che solo la morte può liberare dai dolori; gli enunciati che rivelano la realtà filosofica e contengono l'apostrofe (accusa) diretta alla natura smascherano con un brusco effetto di contrasto la serenità delle immagini di apertura.

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Il sabato del villaggio



Composto dal 20 al 29 settembre 1829, questo canto tratta lo stesso tema di "La quiete dopo la tempesta" (scritta del resto solo qualche giorno prima): e cioè se sia possibile agli uomini essere felici.
Queste due poesie si integrano nel confinare il piacere in una zona di reazione al dolore o di attesa, privandolo di un valore assoluto.
In "La quiete dopo la tempesta" il Leopardi aveva risposto che l'unico piacere che gli uomini possono trovare è figlio d'affanno e consiste nell'episodica e momentanea cessazione del dolore di vivere; ne "Il sabato del villaggio" egli risponde che a dare quel tanto di felicità godibile agli uomini è la loro speranza, cioè l'aspettativa del futuro che è sentita non soltanto dai giovani ma da tutti gli uomini, indipendentemente dalla loro età.
Questa speranza così costitutiva della vita degli uomini è vana: perciò il fanciullo si goda la sua età e non desideri che troppo presto arrivi quella maturità che, attesa come il momento essenziale dell'esistenza, si risolverà come la domenica in un'esperienza di noia e di vuoto.

ANALISI

La poesia è organizzata su tre nuclei tematici in sequenza, ciascuno con una sua funzione:
una situazione ("il cor si riconforta"): descrive ciò che accade nel villaggio la sera del sabato. I personaggi sono tutti umani; la descrizione è organizzata in scene che si legano al tempo: dal calar del sole al buio profondo.
un commento ("di sette è il più gradito giorno"): è conseguenza della situazione, vista come esempio di una condizione umana generale.
un'esortazione ("godi fanciullo mio"): è conseguenza della situazione del commento. L'umanità si comporta così il sabato (situazione), perché è il giorno più gradito (commento) e per tanto godi (esortazione).
Il Poeta ribadisce il concetto della non esistenza della felicità: il piacere è quiete dell'affanno, attesa, delusa, della gioia.

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Operette Morali



Per evidenziare alcuni temi, fin dalla prima operetta, il Leopardi mette a fuoco l'idea centrale del libro, l'infelicità umana, qui rappresentata come continua delusione delle speranze e come vana ricerca della felicità.
Nel "Dialogo della Natura e di un Islandese", egli riafferma l'amara verità che nell'universo l'uomo non conta nulla e che la sua sorte non è diversa da quelle delle altre specie viventi che, a differenza dell'uomo, non si sono immaginate né un destino eccezionale né l'eternità dopo la morte. L'uomo virtuoso, ricorda il Leopardi, deve se mai mantenere un atteggiamento di fiera dignità, pur riconoscendo il "basso stato" che abbiamo avuto in sorte.
Le prime "Operette morali" sono state composte negli anni in cui il poeta, tra i piccoli e i grandi idilli, abbandonò per qualche tempo la poesia: si tratta dunque di un esercizio prosastico che lo assorbì interamente e che ha valore conclusivo rispetto alla produzione precedente e di svolta nei confronti della produzione successiva. Infatti, nel libro ritornano tutti i motivi della prima stagione dei Canti, ma distaccati e ripensati: dietro queste prose c'è una fase di meditazione e di maturazione di pensiero, che porterà al diverso pessimismo dei grandi idilli. Il fondo delle operette è negativo e amaro, ma aleggia nelle pagine un'eco delle illusioni e dei sogni da cui è difficile e doloroso staccarsi. La ragione ha già scoperto lo squallido vero, ma il cuore stenta ad accettare una radicale e tragica rinuncia.
La verità è l'amarissima negazione di ogni illusione e di ogni speranza, la desolazione di ogni sentimento dolce e caro, l'inutile ricerca di una ragione a tanta infelicità.
Il distacco dalla propria materia sentimentale è però realizzato più concretamente attraverso l'ironia che, irridendo alla vanità e alla debolezza degli uomini, ne vanifica aspirazioni, sogni, abbandoni: è un'ironia che raggela il cuore, ma pur cela una vena sottile di pietà per una sorte tanto amara.
Alcuni dialoghi si svolgono in uno spazio irreale, in un clima che si potrebbe dire metafisico.
Un folletto e uno gnomo deridono la stolta presunzione della razza umana ormai estinta, che si credeva al centro del mondo; però ora, dopo la scomparsa dell'umanità, tutto nel creato procede come prima ("Dialogo di un Folletto e di uno Gnomo").
Come si vede, il Leopardi ritorna su temi a lui cari: la nostra vita non è che silenzio e cade nell'indifferenza dell'universo, mentre a noi è riservato solo un eterno dolore.
Nel "Dialogo di un venditore d'almanacchi e di un passeggere" si riflette il particolare il pessimismo di quegli anni, il rifiuto totale di ogni illusione e di ogni debolezza, la sfida eroica e l'accettazione virile della sorte avversa; lo scrittore sorride bonariamente all'opinione dell'uomo comune che ancora si affida ai sogni e alle speranze.

Il genere umano non ha nessuna importanza per la Natura.

L'indifferenza della natura per l'uomo è ribadita nel "Dialogo della Natura e di un Islandese": la natura non bada agli uomini, alla loro serenità o alla loro infelicità, ma solo alla conservazione del mondo.
Il "Dialogo della Natura e di un Islandese" rappresenta la prima decisa ed articolata introduzione nel pensiero leopardiano di uno dei concetti più caratteristici, cioè quello della indifferenza e ostilità della natura.
Qui, infatti, la natura è concepita come una forza assoluta e immensa, che si identifica con le ferree e immodificabili leggi dell'eterna trasformazione della materia: tutte le forme di vita vi sono ugualmente soggette, sottoposte ad inevitabili scadenze biologiche che riducono la vita dei singoli ad una dura lotta per la sopravvivenza destinata fatalmente a fallire.
Nemmeno l'uomo riesce a sottrarsi a questa legge universale: più cerca di sfuggire alla natura, più ne viene afferrato e condizionato; e le domande tragiche che si pone sul significato della sua esistenza e sul suo rapporto con le cose sono destinate a restare senza altra risposta se non quella, disperata ed agghiacciante, che nello svolgersi del ciclo eterno della materia universale egli non occupa che un posto trascurabile.
Il dialogo riceve la sua forza drammatica, come in tante altre Operette, dal trasferirsi di un tema assoluto della ragione in un mito della fantasia, nella personificazione della natura in un'immensa sfinge, nel paesaggio deserto e solitario in cui essa è collocata.

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Dialogo di un folletto e di uno gnomo



Scritto dal 2 al 6 marzo 1824, questo "dialogo" è, secondo un diffuso giudizio critico, la più riuscita delle operette satiriche in cui il Leopardi ironizza e polemizza con gli altri uomini. La satira è qui rivolta alla superbia degli uomini che, senza averne motivo, non solo credono di essere i "signori del mondo", ma pensano addirittura che tutto l'universo sia stato creato in funzione loro. Il Leopardi, cioè, polemizza con la concezione antropocentrica (quella che vede gli uomini al centro dell'universo) e lo fa con sottile ironia: ipotizza che l'umanità sia scomparsa, quasi per autodistruzione o autogenocidio, ma dimostra che la natura e l'universo non se ne sono neppure accorti. Così argomentano lo gnomo e il folletto che del dialogo sono protagonisti; ma anche loro sono oggetto dell'ironia leopardiana: infatti, nel momento stesso in cui essi stigmatizzano il comportamento superbo e insensato degli uomini, dimostrano di essere anch'essi titolari dei medesimi difetti, convinti che l'universo sia fatto per loro.

Il dialogo è stato diviso in sette punti:

Il fatto: gli uomini son tutti morti e la razza è perduta.
Conseguenze della mancanza degli uomini nel tempo: sono nulle; senza gazzette, lunari, regni, imperi, guerre, il tempo continuerà a scorrere come prima perché tutti gli anni si assomigliano.
Cause, casualità e conseguenze della mancanza degli uomini.
Discussione sulla destinazione dell'universo: l'universo è fatto per gli uomini o per i folletti?
Documenti sulla presunzione degli uomini.
Ironia sulla presunzione degli uomini: si sentivano padroni di specie da loro non viste né conosciute.
Conclusioni sulla scomparsa degli uomini: ora che sono tutti spariti, la terra non sente che le manchi nulla, tutto procede come prima.

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Dialogo di un venditore di almanacchi e di un passeggero



Questo "dialogo", scritto nel 1832, ribadisce la visione materialistica del Leopardi e, insieme, il suo lucido rifiuto di ogni falsa consolazione.
Nelle battute rapide ed essenziali tra il passeggere e il venditore d'almanacchi è riconfermata l'assoluta vanità di ogni speranza di felicità.
Un passante si sofferma a parlare con un popolano, intento a vendere sulla via i calendari per l'anno nuovo. Il passante è un uomo colto e pensoso, esperto delle sorti della vita, che si accosta nel dialogo ai ragionamenti e alla mentalità del venditore e con lui discorre piacevolmente dell'anno nuovo e del desiderio che avrebbe ognuno di ritornare indietro cogli anni; a patto, però, di poter trascorrere una nuova esistenza, ignota ancora del tutto e non già quella vissuta.

Il pensiero del Leopardi è dunque quello doloroso e pessimistico che già conosciamo: nessuno vorrebbe trascorrere di nuovo i propri anni e questo è segno che la somma dei mali è stata per tutti nel passato superiore a quella dei beni.

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Dialogo della Natura e di un Islandese



Una delle Operette più alte (di importanza quasi centrale nello sviluppo del volume) è stata giudicata da tutti gli studiosi il "Dialogo della Natura e di un Islandese"; soprattutto perché vi compare per la prima volta in tutta la sua estensione, condotto sino all'estremo delle sue conclusioni, il "pessimismo cosmico" del Leopardi.
I colpevoli non sono più gli uomini che volontariamente hanno deviato dalle leggi naturali, ma la Natura, sempre e dovunque indifferente se non ostile ad ognuno dei suoi figli, incapace di procurar loro quella felicità che è nel fine di ogni vivente.
Tutto concorre alla grandezza del dialogo, lo scenario deserto e remoto in cui esso è collocato, l'immagine solenne e impassibile della Natura, la figura squallida dell'Islandese.

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Lo Zibaldone



Poetica del vago e dell’indefinito

Per ricostruire il pensiero del Leopardi si deve ricorrere alla fonte principale che è lo "Zibaldone", vastissima raccolta di appunti, pensieri, ricordi, osservazioni, note, conversazioni e discussioni che egli annotò per uso personale a partire dal 1817, con frequenza variabile: l'annotazione è fittissima in alcuni dei primi anni (nel 1821, nel 1823) riducendosi a pochi cenni saltuari tra il 1830 e il 1832, quando cessa del tutto.
Alcuni di questi pensieri sono: l'uomo ha in sè un desiderio infinito di piacere; ogni limitazione di questo piacere produce in lui una sensazione dolorosa; ne deriva che anche in poesia tutto ciò che è limitato, definito, ritratto nei suoi precisi contorni, produce una sensazione tendenzialmente dolorosa e quindi essenzialmente impoetica. Poetico è viceversa tutto ciò che in vario modo consente all'uomo di attingere un'idea, una sensazione infinita. Le idee vaghe, le sensazioni indeterminate, le immagini che portano con sè un che di remoto, oscuro, di incompiuto, di immenso, sono per se stesse poetiche: tali soprattutto quelle caratteristiche del fantasticare del fanciullesco, che è sempre vago appunto, indeterminato e senza limiti. E perciò ogni poesia si risolve in ricordi di impressioni ed affetti infantili, in un ritorno a quel mondo di remote e sognanti fantasie, nella rievocazione di un tempo e di uno spazio perduti ed inafferrabili. La poesia risponde tanto maggiormente al suo fine quanto più si allontana dalla pura narrazione o rappresentazione dei fatti nella loro verità; quanto più si accosta alle condizioni della musica, quanto meno imita, e più canta.

SPUNTI DALLO "ZIBALDONE"



"L'antico non è eterno

e quindi non è infinito,

ma il concepire che fa l'animo

di uno spazio di molti secoli,

produce una sensazione indefinita,

l'idea di un tempo indeterminato

ove l'anima si perde."

"Le parole lontano, antico e simili sono poeticissime e piacevoli, perché destano idee vaste e indefinite e non determinabili e confuse."

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La Ginestra



E' l'ultimo canto leopardiano, composto nel 1836 e pubblicato postumo a cura dell'amico Antonio Ranieri, che lo pose come ultimo a chiudere la serie dei "Canti" seguendo le indicazioni del Leopardi stesso. In esso si riassume e si conclude tutta la polemica di quegli anni contro la filosofia spiritualistica ed in genere contro i falsi ideali e le vane illusioni a cui l'uomo del suo tempo pareva volgersi per negarsi la consapevolezza della realtà della sua condizione.
"La Ginestra" si propone come luogo dove il Leopardi concentra l'essenza della sua lunga e profonda riflessione sul significato della vita ed in sostanza consegna ai lettori le conclusioni definitive cui è giunto. In realtà la poesia non segna traguardi nuovi: vi troviamo in fondo gli elementi presenti da sempre nella concezione leopardiana e le conclusioni cui approda ora sono quelle disseminate lungo tutta la sua poesia. Troppo complessa è l'ispirazione del poeta, perché una distinzione fra i passi oratori-polemici e quelli d'indole lirica non finisca per immiserire la lettura. E' vero che a strofe intensamente ricche (come la prima) si alternano strofe polemiche (come la seconda: "Qui mira e qui ti specchia, / secol superbo e sciocco, ...") e strofe di amplissima meditazione cosmica (come la quarta "Sovente in queste rive, / che, desolate, a bruno / veste il flutto indurato, e par che ondeggi, / seggo la notte ... Veggo dall'alto fiammeggiar le stelle, / cui di lontan fa specchio / il mare ..."). Le parole sdegnose nei confronti del proprio tempo che rinveniamo in "La Ginestra" non costituiscono l'espressione di uno spirito reazionario, cieco dinanzi alle esigenze delle dottrine liberali; ma l'espressione di un animo che già aveva in se stesso, sin dalla prima maturità, esaurito e condannato i principi su cui si appoggiava la borghesia europea, per una divisione più avanzata dei rapporti umani, non volta alla guerra spietata delle libere iniziative, dei commerci, ma alla confederazione fraterna degli uomini contro la comune nemica. Non dunque una posizione reazionaria, ma volta, come in nessun altro componimento, alla pietà degli uomini, alla consapevolezza di un preciso dovere sociale, ad una volontà di messaggio, di evangelizzazione.
L'uomo è un essere casuale e senza scopo nell'immensità della vita universale, sottoposto ai capricci della natura distruttrice, alla quale non può opporre altro che il suo forsennato orgoglio privo di senso. Tuttavia essere cosciente della verità, quindi della propria condizione esistenziale è, secondo Leopardi, l'unica dignità, la sola nota di merito concessa all'uomo.
La poesia è dunque incentrata sulla fragilità dell'uomo e sulla malvagia potenza della natura, contro la quale l'essere umano non può nulla.
Stolto l'uomo, agli occhi del Leopardi, che nutre tanto orgoglio per le proprie scoperte e le proprie conquiste, mentre non si rende conto di quanto siano insignificanti. Debole, fragile, passeggero, l'uomo ha dunque una sola vera ricchezza: la sua dignità, ed è questa che deve difendere ad ogni costo, perché è l'unica cosa che lo distingue veramente dall'animale, vissuto e morto senza sapere nulla di sè.
Leopardi articola i suoi interventi in forma di: critica, polemica, proposta.
La critica investe l'orientamento spiritualistico prevalente nelle ideologie contemporanee e il modello di sviluppo sociale a cui guardavano i gruppi riformistici.
Leopardi si considera straniero nel suo tempo, rifiutando le mode ed i miti d'attualità, tra cui quello del "progresso" del genere umano. A queste che considera teorie fuorvianti perché non tengono conto dei dati naturali della condizione umana, contrappone una filosofia "dolorosa ma vera", il cui nocciolo consiste nel riconoscimento della materialità dell'uomo, della sua infelicità. E' una concezione antropologica, poiché si tratta di diffondere una cultura dell'uomo come essere cosciente della precarietà in cui vive e dell'annullamento a cui è destinato.
Per quanto concerne la polemica, l'autore si batte contro la pretesa di instaurare una felicità collettiva ignorando la situazione reale dell'individuo, perseguitato dalla natura nemica. I liberali sono detti "sciocchi e ignoranti, gretti, meschini e del tutto incapaci di pensieri gentili e nobili"

assieme a tutti quelli che promettono vane speranze di progresso e felicità.
Ed ecco quindi la proposta, il messaggio di solidarietà, di eroismo, per affrontare con lucidità la realtà, la coscienza del vero. Il suo ultimo appello alla fraternità è rivolto a tutti gli esseri umani: l'unico mezzo per sfuggire all'unica vera nemica comune (la Natura) è quello di cooperare in una lotta comune lasciando da parte inutili conflitti fratricidi.
Il poeta chiude il suo canto con il ritorno all'immagine della ginestra, da cui aveva preso l'avvio, intesa come mito e simbolo dell'unico atteggiamento possibile per l'uomo come per le altre forme caduche dell'immenso e ricorrente ciclo della vita materiale: la rassegnazione al dolore, la coscienza dell'umiltà della propria condizione, l'accettazione del Nulla come unica realtà da cui veniamo ed a cui siamo destinati.

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Il pensiero leopardiano



Gli studiosi hanno distinto tre fasi del pessimismo leopardiano: una fase di "pessimismo storico" (avvertibile nell'opera "Discorso di un italiano sulla poesia romantica" del 1818), una di "pessimismo psicologico" (nei "Piccoli Idilli") e una di "pessimismo cosmico" (in alcune "Operette morali" e nei Canti pisano-recanatesi ovvero Grandi Idilli).

Anche se per comodità si è deciso di suddividere il pessimismo leopardiano in tre modelli, occorre precisare che questi tre modelli sono tutti presenti nel pensiero del poeta e si susseguono in ciclo e senza ordine preciso, spesso sovrapponendosi, anche se in alcune opere può emergere uno o l'altro modello.

I1 "Pessimismo Storico" si basa sulla "Teoria delle Illusioni".

Indagando sulla causa dell'infelicità umana, il Leopardi segue la spiegazione di Rousseau, e afferma, con la sua "Teoria delle Illusioni", che gli uomini furono felici soltanto nell'età primitiva, quando vivevano a stretto contatto con la natura, ma poi essi vollero uscire da questa beata ignoranza e innocenza istintiva e, servendosi della ragione, si misero alla ricerca del vero. Le scoperte della ragione furono catastrofiche: essa infatti scoprì la vanità delle illusioni, che la natura, come una madre benigna e pia, aveva ispirato agli uomini; scoprì le leggi meccaniche che regolano la vita dell'universo; scoprì il male, il dolore, l'infelicità, l'angoscia esistenziale.
La storia degli uomini quindi, dice il Leopardi, non è progresso, ma decadenza da uno stato di inconscia felicità naturale, ad uno stato di consapevole dolore, scoperto dalla ragione.
Ciò che è avvenuto nella storia dell'umanità, si ripete immancabilmente, per una specie di miracolo, nella storia di ciascun individuo. Dall'età dell'inconscia felicità, quale è quella dell'infanzia, dell'adolescenza e della giovinezza, allorché tutto sorride intorno e il mondo è pieno di incanto e di promesse, si passa all'età della ragione, all'età dell'arido vero, del dolore consapevole e irrimediabile .
La ragione è colpevole della nostra infelicità, in contrasto con la natura madre provvida, benigna e pia, che cerca di coprire col velo dei sogni, delle fantasie e delle illusioni le tristi verità del nostro essere.


I1 "Pessimismo Psicologico". si basa sulla "Teoria del Piacere"

Partendo dalla riflessione sull'infelicità, elabora la "Teoria del Piacere" che diventa il cardine del suo pensiero: secondo questa teoria, "l'amor proprio" porta l'individuo ad una richiesta di piacere infinito per intensità e per estensione; poiché questa richiesta non potrà mai essere soddisfatta interamente, l'individuo, anche nel momento di maggior piacere, continuerà a sentire l'assillo del desiderio non colmato. Questo assillo è di per sè patimento, sicché l'individuo, anche quando non soffre di mali materiali, è in stato di sofferenza per la sua stessa richiesta inappagata.
Questo tipo di pessimismo è ben più radicale del primo, perché l'infelicità non è un dato occasionale, ma ormai è una costante della condizione umana.

II "Pessimismo Cosmico" si basa sulla "Teoria del Patimento".

Un ulteriore aggiustamento della concezione di natura si ebbe quando il poeta spostò la sua attenzione dal tema del Piacere, che non si può avere, a quello della Sofferenza che non si può evitare.
Anche se l'individuo potesse raggiungere il piacere, il bilancio della sua esistenza sarebbe comunque negativo, per la quantità dei mali reali (infortuni, malattie, invecchiamento, morte) con cui la natura, dopo averlo prodotto, tende a eliminarlo per dar luogo ad altri individui in una lunga vicenda di produzione e distruzione, destinata a perpetuare l'esistenza e non a rendere felice il singolo.
In altri momenti il Leopardi approfondisce la sua meditazione sul problema del dolore e conclude scoprendo che la causa di esso è proprio la natura, perché è proprio essa che ha creato l'uomo con un profondo desiderio di felicità, pur sapendo che egli non l'avrebbe mai raggiunta: "0 natura, natura, perché non rendi poi quel che prometti allor ? Perché di tanto inganni i figli tuoi ?", dice il poeta nel canto "A Silvia".

Così, di fronte alla natura, il Leopardi assume un duplice atteggiamento: ne sente allo stesso tempo il fascino e la repulsione, in una specie di "odi et amo" catulliano. L'ama per i suoi spettacoli di bellezza, di potenza e di armonia; la odia per il concetto filosofico che si forma di essa, fino a considerarla non più la madre benigna e pia (del primo pessimismo), ma una matrigna crudele ed indifferente ai dolori degli uomini, una forza oscura e misteriosa, governata da leggi meccaniche ed inesorabili (vedi "Dialogo della Natura e di un Islandese").
E' questo il terzo aspetto del pessimismo leopardiano che investe tutte le creature (sia gli uomini che gli animali).
Ma in questo momento della sua meditazione il Leopardi rivaluta la ragione, prima considerata causa di infelicità. Essa gli appare colpevole di aver distrutto le illusioni con la scoperta del vero, ma è anche l'unico bene rimasto agli uomini, i quali, forti della loro ragione, possono non solo porsi eroicamente di fronte al vero, ma anche conservare nelle sventure la propria dignità, anzi, unendosi tra loro con fraterna solidarietà, come egli dice nella "Ginestra", possono vincere o almeno lenire il dolore.

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Edited by vayiolet.ta - 31/1/2013, 15:28
 
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